5/22/2013

Sentenza 26 marzo 2013, n. 1698, Consiglio di Stato: Le terre soggette ad usi civici e le procedure di evidenza pubblica


Usi civici: le terre appartenenti ai diritti civici risultano, di norma, incompatibili con l'attività edificatoria
1. La questione
Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato affronta il tema dei beni di “uso civico”, delineandone la natura e le caratteristiche ed affermando la necessità dell'espletamento di una procedura di evidenza pubblica al fine di derogare all'inalienabilità e all'indisponibilità che li caratterizza. 
In particolare, il Collegio indica i vari passaggi che il Comune, quale ente rappresentante della collettività, e la Regione, quale organo di controllo e vigilanza, devono compiere affinché l'eliminazione del vincolo di destinazione gravante sul bene sia legittima. Interessante appare poi la ricostruzione svolta dal Consiglio in merito all'istituto del risarcimento del danno ex art. 30 c.p.a. e il rinvio alla disciplina di cui all'art. 2043 c.c. 

2. Il fatto
Con un Decreto del Dirigente della competente struttura la Regione Campania autorizzava la costruzione e l'esercizio di un impianto di aerogeneratori su una particella gravata dal vincolo di “uso civico”, subordinando l'autorizzazione stessa alla “positiva conclusione della procedura per il cambio di destinazione d'uso dell'area”. Tale procedura, però, non era andata a buon fine e la Giunta Regionale aveva deliberato di non accogliere la richiesta per il mancato esperimento di una procedura di evidenza pubblica per l'assegnazione dell'area. 
Le società interessate avevano, pertanto, proposto ricorso avverso detta delibera e, successivamente, avevano impugnato la sentenza di rigetto emanata dal competente T.A.R., lamentando l'erronea applicazione dei principi generali in materia di qualificazione di beni di uso civico e dei beni pubblici demaniali e chiedendo il risarcimento del danno subito.

3. L'iter argomentativo
Il Consiglio di Stato affronta la questione mettendo in luce le peculiarità dei beni di uso civico e, dopo aver delineato con chiarezza e linearità espositiva le norme da applicare al caso concreto, rigetta in toto l'appello, dichiarando infondati tutti i singoli motivi di censura. 

3.1. La definizione di “uso civico”
Il Collegio inizia il proprio iter argomentativo affermando che gli “usi civici” sono diritti reali di natura collettiva, volti ad assicurare un'utilità o un beneficio ai singoli appartenenti ad una collettività, disciplinati dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766 e dal regolamento di cui al R.D. n. 332/1928. 
L'art. 12 della legge del 1927 ha sancito l'inalienabilità e l'impossibilità di mutamento di destinazione di tali beni, salva la possibilità di richiedere l'autorizzazione (oggi di competenza delle Regioni) a derogare il vincolo. 
Alla luce di detta norma il Consiglio di Stato e la Suprema Corte concordano nel ritenere i beni di uso civico riconducibili al regime della demanialità.
Essi, infatti, rappresentano un diritto collettivo di natura reale, la cui ratio è quella di riservare alla pubblica utilità i benefici provenienti dalla terra, dai boschi e dalle acque sulle quali incombe il vincolo di destinazione. 
Invero, consentire lo svolgimento dell'attività edificatoria comporterebbe la “privatizzazione” a tempo indeterminato di un bene pubblico.
Il Consiglio di Stato sottolinea poi che il diritto collettivo di cui si tratta è esercitato in forma duale dal Comune, che amministra i beni di uso civico in quanto esponente della collettività, e dalla Regione, che svolge attività di diretta e indefettibile vigilanza per le attività di straordinaria amministrazione, tra le quali certamente rientra l'eliminazione del vincolo di destinazione.
Il Collegio precisa poi che dalla natura pubblica degli usi civici ex art. 12 legge 1766/1927 deriva la necessaria applicazione dei principi comunitari di concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione e proporzionalità, nonché dei principi di trasparenza, pubblicità ed imparzialità. Ne consegue la doverosa applicazione dell'art. 12 della legge 241/1990, nonché la necessità del previo esperimento della procedura di evidenza pubblica.

3.2. La procedura per l'eliminazione del vincolo
Dopo aver evidenziato le caratteristiche dei beni di uso civico, la sentenza in esame delinea la procedura che il Comune e la Regione devono seguire, a norma di legge, al fine di poter legittimamente eliminare il vincolo di destinazione posto in favore della collettività.
Infatti, il Consiglio afferma che il Comune deve in primo luogo dare pubblica notizia della richiesta di deroga e, successivamente, pubblicare un avviso diretto ad altri operatori potenzialmente interessati contenente specificazioni circa i requisiti e gli elementi di ammissione, i criteri di valutazione delle eventuali richieste alternative, nonché le modalità per la valutazione delle diverse ipotesi. Invero, come era già stato affermato in primo grado e come sopra evidenziato, l'autorizzazione al mutamento di destinazione “...non può prescindere dal previo espletamento di una gara pubblica...” indetta dal Comune stesso.
Al termine della gara, il provvedimento contenente l'individuazione del beneficiario e la richiesta di deroga deve essere sottoposto al vaglio della Regione, il cui controllo rappresenta una “fase integrativa dell'efficacia”.
L'attività della Regione sarà finalizzata, in primo luogo, alla verifica della sussistenza dei presupposti per l'ammissibilità della richiesta di deroga, anche alla luce della legislazione regionale.
Dopo aver verificato l'an, la Regione dovrà compiere una valutazione circa l'utilità effettiva della diversa destinazione, che - ricordiamo - deve rappresentare un beneficio reale per la collettività; tale valutazione dovrà tenere in considerazione ogni elemento utile e non dovrà limitarsi ad un mero calcolo economico, bensì occorre che la nuova destinazione rappresenti davvero un beneficio presente e futuro per la generalità degli abitanti.
Infine, la Regione dovrà verificare il quomodo del procedimento, controllando che nello svolgimento della procedura di cui sopra il Comune abbia rispettato le norme di legge poste a garanzia del beneficiario e della collettività.
Se i controlli effettuati avranno esito positivo la Regione emanerà un decreto autorizzativo ex art. 41, R.D. 332/1928, altrimenti potrà legittimamente rifiutare l'autorizzazione; il caso di specie rientra certamente in quest'ultima ipotesi, poiché è stata ravvisata la mancanza della necessaria procedura
di evidenza pubblica. 

3.3. La verifica dei canoni paesaggistici e territoriali
Gli appellanti lamentavano poi violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, in quanto il Giudice di primo grado aveva sottolineato che in mancanza di un apposito piano paesaggistico regionale diretto a regolare la materia non sarebbe stato possibile alcuna modifica della destinazione d'uso del bene, a meno che non vi sia la preventiva autorizzazione ex art. 146 D.Lgs. n. 42 del 2004.
Il Consiglio ha però affermato che la precisazione compiuta dal T.A.R. non viola i principi processuali poiché “tutti i profili concernenti la verifica del rispetto degli indirizzi di assetto paesaggistico e territoriale...devono essere ricondotti nell'alveo dei ricordati poteri di controllo di cui all'art. 12 della L. n. 1766 cit.”.
Inoltre, è opportuno ricordare che lo stesso art. 12, D.Lgs. 387/2003, attuativo della direttiva comunitaria 2001/77/CE del 27 settembre 2001, specifica che, anche nella materia oggetto della sentenza in commento, l'autorizzazione al mutamento di destinazione è condizionata al rispetto delle normative vigenti a tutela del paesaggio. 
Pertanto, si deve ritenere che la disciplina posta dal D.Lgs. n. 42/2004 rappresenti una forma di salvaguardia aggiuntiva, e non sostitutiva, a tutela dei beni di pubblico interesse. Tale affermazione trova ulteriore conferma nella circostanza che l'art. 146, attraverso l'espresso riferimento ai terreni gravati da usi civici, ribadisce la funzione pubblica degli usi civici, in quanto utili alla conservazione dell'ambiente, bene costituzionalmente protetto.

3.4. Il risarcimento del danno
Appena un cenno meritano, infine, le considerazioni svolte dal Consiglio in merito alla richiesta di risarcimento del danno, avanzata dagli appellanti.
Interessante appare infatti la ricostruzione compiuta dal Collegio, il quale sostiene che l'art. 30 c.p.a., nel disciplinare la risarcibilità degli interessi legittimi, operi in realtà un rinvio all'art. 2043 c.c. e alla relativa disciplina. 
Alla luce di tale affermazione sarà risarcibile il danno cagionato dalla Pubblica Amministrazione solo in presenza dei requisiti civilistici della colpevolezza, del nesso di causalità e del danno ingiusto. Ne deriva che solo un provvedimento antigiuridico potrà comportare il risarcimento del danno, che dovrà, invece, escludersi ogni qualvolta il Giudice dichiari legittima l'azione amministrativa.

Sentenza completa (ricercare la 1698 del 2013 sul sito del Consiglio di Stato): Consiglio di Stato, Sezione Quarta, sentenza 26 marzo 2013, n. 1698


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