11/20/2008

USI CIVICI, TERRE CIVICHE, TERRE COLLETTIVE

Usi civici, terre civiche, terre collettive
(in Rivista di diritto agrario, 1999, II, 243 - - Rubrica "Terre civiche e Proprietà collettive" a cura del Prof. Alberto Germanò, direttore dell'Istituto di Diritto Agrario Internazionale e Comparato)


Sommario
1. Un solo nome - “usi civici” - per più fenomeni distinti.- 2. La distinzione dipende dalla diversa origine.- 3. L’unicità del norme dipende dalle identiche qualità dei diritti.- 4. La “filosofia” livellatrice della legge n. 1766 del 1927.- 5. L’inserimento della legge del 1927 nel quadro dei diritti e degli interessi considerati dalla Carta costituzionale del 1948.- 6. La legge sulla montagna n. 97 del 1994 ed il suo “rapporto” con la legge del 1927.- 7. Il problema della titolarità delle terre civiche.- 8. Un po’ di storia: il demanio regio, il demanio feudale ed il demanio universale nel Regno di Napoli.- 9. L’entità demica da collettività o gruppo di fatto ad Universitas.- 10 La legislazione baiulare e la formazione del demanio cittadino od universale.- 11. Mancanza di documenti che consentano di dare una risposta sicura sulla titolarità del demanio universale e ricorso alla dottrina napoletana del ‘600 e del ‘700.- 12. Conclusioni.-
  
1. Un’unica parola –“usi civici”- usi per  più significati: usi civici in senso stretto e terre civiche e queste o terre civiche “aperte” o tere civiche “chiuse”.
Trattasi di un fenomeno unico (ma variegato) di diritti goduti in comune da una collettività senza divisione per quote tutti sono diritti reali di godimento perpetuo; tutti sono diritti appartenenti ad una collettività; tutti sono diritti senza quote; tutti sono [nati] ne cives fame pereant nec vitam inermem ducant cioè per ritrarre dalla terra le utilità essenziali per la vita.
Ma bisogna distinguere:
a) gli usi civici in senso stretto diritto di ritrarre alcune utilità da una terra altrui:  pascolo legna funghi caccia pesca acqua sassi semina.
b) le terre civiche, ovverosia le terre dalle quali si ha il diritto di ritrarre tutte le utilità che esse possono dare. E la terra è della collettività, una collettività costituita da tutti i cittadini della circoscrizione in cui risiede la collettività (ed allora terre civiche aperte); o una collettività costituita dai discendenti dei vecchi originari (ed allora terre civiche chiuse o meglio terre collettive).
Due caratteri vanno tenuti presenti, due caratteri che si intrecciano e si chiariscono a vicenda
A. la terra o è propria (terre civiche) o è altrui (usi civici in senso stretto)
B. la terra dà tutte le utilità alla collettività (ed allora è “propria” e, dunque, è terra civica) o dà alcune utilità alla collettività (ed allora è evidente che c’è un altro che prende le altre utilità, sicché il godimento della collettività si esercita su terra altrui).

2. La distinzione dipende dalla origine
a) per apprensione, la collettività  spostandosi originariamente su un terreno inabitato occupandolo e facendolo proprio con il lavoro;
b)  per concessione del principe e del signore e ciò  o in comproprietà, qualora la collettività fosse venuta a popolare e a bonificare determinate aree (è il caso di Nonantola) o con attribuzione o con riconoscimento di determinate utilitates alla collettività abitante il territorio al momento dell’assegnazione della terra da parte del signore al vassallo.
Il fatto che io ricordi i vassalli fa capire che il tempo del sorgere di questi diritti reali di godimento perpetuo di tutte le utilità o di alcune utilità che una terra può dare alla collettività (presente e futura) risale, quanto meno, al medioevo.
Con la conseguente difficoltà di provare documentalmente l’origine della proprietà collettiva: sicché la Commissione feudale del Regno di Napoli degli anni 1808-1810 ha affermato l’esistenza di presunzioni (che, poi, sono passate nella giurisprudenza italiana) come ubi feuda ibi demania, ubi demania ibi usus (Massima n. 6) [ma Astuti dice che è un feticcio]
Non posso tacere che gli storici del diritto ritengono non generalizzabile la tesi che concepisce gli usi civici come una qualità naturale del feudo. Cioè va detto che non può essere riconosciuto in linea generale un rapporto tra diritti civici ed il regime delle concessioni beneficiarie feudali
§ sia perché è varia la condizione giuridica delle popolazioni cittadine e rurali soggetti alle giurisdizioni feudali;
§ sia perché l’origine storica degli usi civici è molto spesso anteriore al feudo e frequentemente indipendente dalla formazione dei possessi beneficiari feudali. Ad esempio: le proprietà collettive del Cadore sono sorte prima dei Da Camino che, nel 1235, le “riconobbero” a favore degli homines de Cadubrio.
  
3. Le forme di proprietà collettiva su terre proprie che chiamo “terre civiche” (se sono aperte) nel Meridione erano dette: demanio universale o communale o comunale o civico.
Mentre le forme di diritti collettivi di uso su terre altrui erano dette “demanio feudale”, o meglio con tale termine si designava la terra su cui essi si esercitavano perché terra concessa in feudo e perciò “appartenente” al feudatario.
Tutti i due tipi di diritto collettivo godevano e godono delle qualità della inalienabilità, indivisibilità, inusucapibilità, imprescrittibilità, perpetua destinazione ad un determinato uso [qui: agro-silvo-pastorale]. Trattasi di quelle stesse qualità che caratterizzano i beni pubblici che oggi chiamiamo demanio [i beni pubblici]
Ma la parola demanio non dipende dal fatto che si tratta di beni oggettivamente e soggettivamente pubblici, cioè appartamenti agli Enti pubblici territoriali. Essa viene dalla parola latina: dominus, intendendosi, per il demanio universale, l’Universitas come domina; e per il demanio feudale il feudatario come dominus.
Devo, però, precisare che, secondo altri Autori (Cassandro) l’espressione “demanio” ha un altro significato: esso era usato per dare atto della circostanza che le terre erano state originariamente del potere centrale, del re, cioè il vero dominus e che quindi facevano parte del complesso dei beni del re chiamato, appunto, “demani”. Sicché, il demanio cittadino (o universale) “pur nel nome conservava il ricordo della derivazione sua dal demanio statale” (Cassandro, p. 223).
Ritornerò sull’uso e sul significato delle parole demanio universale e demanio feudale quando cercherò di illustrare l’origine degli “usi civici” meridionali cioè delle vostre terre civiche e dei vostri usi civici in senso stretto.
Ora vorrei dirvi (della legge del 1927, cioè come  e perché sotto lo stesso nomen di usi civici si sia proceduto (nel 1924 e poi nel 1927 r.d.l. 22.5.1924 n. 751; legge 16.6.1927 n. 1766) alla omologazione di distinte situazioni giuridiche di godimento collettivo (senza quote) di terre agro-silvo-pastorali.

4. La Filosofia della legge 1766/1927 è livellatrice: vuole ridurre ad unità il diverso, al fine di determinarne più facilmente l’eliminazione servendosi dell’impianto delle leggi meridionali che meglio che altrove (per via di Giuseppe Buonaparte e di Giocchino Murat) (1806-1815) avevano, a tal fine, adottato le legge francesi contro i biens communaux.
In Francia, si affermano alcuni principi:
1) Se gli usi civici risalgono al medioevo e si ricollegano al feudalesimo, anch’essi vanno eliminati con le leggi rivoluzionarie dell’eversione della feudalità
2) Se tra il cittadino e lo Stato (l’unità e l’indivisibilità della Repubblica) non ci possono essere corpi intermedi particolari e diseguali, ogni “ville, bourg, paroisse e communauté de campagne è trasformata in Comune, ed i biens communaux vanno attribuiti alla Commune, unico êntre moral ammesso
3) Se l’agricoltura, la principale fonte di ricchezza secondo i fsiocrati, ha bisogno di “libertà” dai lacci e lacciuoli che altri diritti possono rappresentarle se esercitati sulla stessa terra, questi diritti (gli usages) vanno eliminati e la terra va resa libera.
4) Se la rivoluzione, con il suo principio di eguaglianza, ha stravolto la vecchia scala gerarchica che, con riferimento alla terra, vedeva sul gradino più altro il signore (le seigneur, secondo Pothier), titolare del domino eminente, e sul gradino più basso il coltivatore (le proprietaire, secondo Pothier) titolare del domino utile, e di conseguenza ha riportato il diritto di proprietà dalla situazione propria dell’ancien regime del dominio diviso alla situazione antica del dominio ex iure Quiritium, cioè un diritto unico, singolare e monolitico
Ed allora:
a) la proprietà - manifestazione della libertà dell’individuo nell’orbita economica - non può che essere diritto  dell’individuo, un diritto che è speculare del rapporto che l’io ha con se stesso - sicché dominium rei come dominium sui -
b) non c’è posto per la proprietà collettiva; c’è solo una proprietà individuale.  
I biens communaux vanno divisi  tra i cittadini!
Dunque: motivi ideologici, politici ed economici. Anche in Italia valgono motivi ideologici, politici ed economici. Si sbandiera il motivo economico, per il quale era utile liberare le proprietà dai lacci dei diritti di uso delle collettività anche perché le terre in proprietà individuale avrebbero prodotto meglio e di più; e ciò in modo coerente al principio produttivistico  del regime.
Ma non può essere sottaciuto che c’è un motivo politico: rendere difficile la vita, ridurre, abolire le Associazioni di cittadini comproprietari di terre civiche o di utenti di usi civici perché espressione di democrazia.
La legge del 1927 è coerente con il sistema della società del 1927: un sistema che codifica solo la proprietà individuale; che esalta il profilo produttivistico  della terra e che avversa tutto il ciò che sa di democrazia.
Perciò, in modo perfettamente coerente con i principi totalitari e produttivistici dello Stato (che erano le coordinate del nostro sistema politico-economico di allora), il legislatore del 1927 dopo aver dichiarato estinti gli usi delle collettività su terre private in caso di omessa dichiarazione entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge, mirò a
1)  dividere, tra i residenti, le terre civiche, se utilizzabili per coltura;
2)  aprire a tutti i residenti  le terre civiche collettive costituite da boschi e pascoli;
3)  legittimare le usurpazioni di tali terre;
4) preferire, per la gestione delle terre civiche (boschi e pascoli), i Comuni, sopprimendo le Associazioni e gli organismi originari di gestione, che apparissero inutili e dannosi;
5) liberare dagli usi civici gran parte dei terreni privati che ne fossero gravati, attribuendone una parte in proprietà alla universitas perché poi fosse quotizzata (se arabile) o gestita dal Comune.
Cioè, il legislatore del 1927 aveva in animo lo stesso fine (la liquidazione), pur adoperando procedimenti diversi: trasformare, più o meno direttamente e sollecitamente la proprietà ed i diritti collettivi in proprietà solitaria di soggetti privati o dell’Ente-Comune. Basti pensare alla: quotizzazione, alla legittimazione ed alla apertura a tutti i residenti. Soprattutto quest’ultimo obiettivo rende conto del fatto come alla perdita dell’interesse si sarebbe aggiunto, con il tempo, la perdita della memoria ed il Comune (anche perché i boschi e pascoli sono beni patrimoniali) avrebbe considerato  suoi beni e li avrebbe potuto anche vendere!

5. La fortunata (per noi) incapacità dei Commissari liquidatori degli usi civici [liquidazione = brutta parola che però è indice di tante cose] ha portato, oggi, la legge del 1927 all’interno di un altro sistema, quello nato dalla Costituzione che ha come coordinate:
1)  l’esaltazione del principio democratico
2)  l’esaltazione del principio di partecipazione alla gestione della cosa pubblica
3)  la tutela delle formazioni sociali intermedie nonché quello che deriva dalla normativa comunitaria che tra i suoi principi ha
4) la tutela dell’ambiente tanto è vero che oggi la proprietà terriere deve esplicarsi non solo in modo produttivistico ma anche  per raggiungere altri fini, riassumibili nello stabilimento di equi rapporti sociali visto come espressione di solidarietà tra città e campagna, tra agricoltori e cittadini che agricoltori non sono.
E’ in un simile quadro, benché si sia alle soglie del 2000 e perciò lontani dal medioevo e dal suo sistema socio-economico, che si riparla di usi civici, se ne progetta il riordino e si rimette in gioco un tema –quello della proprietà collettiva- che si pensava che fosse concluso.
Invero, là dove le collettività “chiuse” hanno difeso la loro proprietà comune “contro” le pretese dei Comuni di apertura a tutti i residenti ed hanno continuato ad esprimere una forma di civiltà giuridica in cui il valore della comunità (passata, presente e futura) è più importante di quello dei singoli, l’AMBIENTE è stato tutelato, i boschi ed i pascoli sono stati salvati.
La forma di godimento della terra gestito nell’interesse della generazione attuale e di quelle future e deciso in modo democratico, propria delle Organizzazioni familiari montane dell’Italia del Nord che sono riuscite a “difendersi” dalla legge del 1927 ed a porsi “fuori” da essa con il d.lgs. n. 1104/1948 (Regole del Cadore) e con le leggi sulla montagna del 1952 (n. 991) del 1971 (n. 1102) e del 1994 (n. 97) e che hanno conservato boschi e pascoli nell’interesse non solo proprio ma di tutti noi, è assunta a strumento di conservazione dell’ambiente ed è diventata il parametro cui rapportare tutte le forme di gestione collettiva della terra anche di quelle che ancora cadono sotto la legge del 1927.

6. A me sembra, infatti, che la legge sulla montagna del 31 gennaio 1994 n. 97 non sia solo l’ultimo tassello del processo di differenziazione delle “chiuse” collettività del Nord d’Italia dei discendenti degli antichi originari (le Regole, le Vicìnie, le Consorterie, le Interessenze, le Comunelle, le Partecipanze, ecc,) ma sia anche una legge che integra la legge del 1927 e per l’effetto si applichi alle collettività “aperte” del Centro e del Sud d’Italia titolari di beni civici.
Ha, così, particolare rilievo
a)   la qualifica di “proprietà collettiva inusucapibile
b)  il fine cui deve tendere il riordino regionale degli organismi gestori di tale proprietà “il profilo produttivo e la tutela ambiente” (art. 3)
Innanzitutto, prendiamo atto che la legge del 1994, distinguendo nettamente le ipotesi di proprietà collettive (art. 3) e di usi civici su terre private (art. 12), convalida la tripartizione del fenomeno che era stato accorpato nel 1927 sotto il nome unico “usi civici”.
Già la legge del 1927 consentiva di distinguere le terre civiche (di proprietà dell’Universitas) dagli usi civici (diritti di “condominio” o di “servitù” su terre private) dato che nel processo di liquidazione degli usi civici si stabilisce che una parte del terreno gravato passa nella completa e totale proprietà dell’Universitas, mentre la restante parte resta pienamente libera nelle mani del dominus [si ha, mediante lo scorporo, la costituzione di una proprietà dell'Universitas, là dove prima essa vantava solo degli usi] il profilo terminologico l’opera di distinzione delle organizzazioni familiari montane, adopera l’espressione “proprietà collettiva” “Al fine di valorizzare le potenzialità dei beni agro-silvo-pastorali in proprietà collettiva indivisibile ed inusucapibile [per la prima volta, dopo la legge n. 397 del 1894 sull’ordinamento dei dominii collettivi nelle Province dell’ex Stato Pontificio] e la riferisce anche alla terra delle collettività chiuse già richiamate dalle precedente leggi sulla montagna (soprattutto quella del 1971) che esplicitamente le aveva sottratte dalla legislazione del 1927 e dalla giurisdizione dei Commissari liquidatori, ed ora nuovamente richiamate “le Regioni provvedono al riordino delle organizzazioni montane comunque denominate, ivi comprese le comunioni familiari montane di cui all’art. 10 legge n. 1102 del 1971, le regole cadorine di cui al d. lgs. N. 1104 del 1948 [e le associazioni di cui alla legge n. 397 del 1894], mentre le distingue dagli usi civici su terre private (art. 12) perché per essi detta una specifica procedura per la loro “cessazione” in caso di espropriazione per p.u. delle terre private su cui gravano, prevedendo solo per essi [e non per le terre civiche e collettive] l’espropriabilità e sancendo il trasferimento del “valore” degli usi sull’indennità di esproprio ex legge del 1865.
In secondo luogo, prendiamo atto che la legge n. 97 del 1994 si riferisce non solo alle collettività “chiuse” del Nord d’Italia ma anche alle “associazioni di cui alla legge n. 397 del 1894”,  ovverosia alle Università Agrarie del Lazio, o meglio a tutte le Associazioni  od Università agrarie d’Italia, stante il carattere esemplificativo dell’elenco di cui all’art. 3.
In terzo luogo, prendiamo atto che il legislatore nazionale riconosce a tutte le collettività titolari di beni civici
1.  un’ampia autonomia statutaria
2. la natura di soggetto privato  e non pubblico, a seguito del riconoscimento da parte della Regione: cosicché le varie Associazioni esistenti hanno il potere di autodeterminarsi nella disciplina endoassociativa, nella gestione dei beni collettivi e nell’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorali con l’obbligo non di conformarsi a regole statali [unico limite, ex art. 23 c.c., ordine pubblico e buon costume] l’autorità governativa può sospendere le deliberazioni  dell’Assemblea delle Associazioni riconosciute se contrare all’ordine pubblico o al buon costume” (altrimenti, non vi sarebbe più autonomia) ma di comprendere nello statuto specifiche disposizioni che garantiscono la deternimazione e la conservazione della proprietà collettiva in altre parole: il riconoscimento, da parte dell’Ordinamento, della personalità giuridica di diritto privato di tutte le associazioni organizzazioni (titolari di proprietà collettive e della natura indivisibile, inalienabile, inusucapibile e vincolate nella destinazione dei beni collettivi è in relazione alla funzione di tutela ambientale e del territorio che esse svolgono con l’esercizio in comune dell’attività agro-silvo-pastorale nell’interesse anche delle generazioni futura della civitas (terre civiche) e ciò è confermato dal fatto che la Regione deve limitarsi a controllare che nello statuto siano state inserite disposizioni che garantiscono
a)  la partecipazione dei rappresentanti dei luoghi alla gestione comune (vale per le sole terre collettive)
b)  forme idonee di pubblicità dei beni e degli elenchi dei soggetti;
c)  le modalità di gestione sostitutiva in caso di inerzia o di disfunzioni della comunione.
N.B.: la Regione deve, nella sua legge, stabilire le condizioni per autorizzare il cambio di destinazione.
In quarto luogo, potremmo chiederci se la legge del 1994 possa onde aver capovolto il sistema della legge del 1927 che –come si è detto- mal sopportava le organizzazioni sociali intermedie che funzionassero sulla base dei principi democratici e che aveva previsto il riordinamento delle terre civiche lungo tre direttrici:
1. non creare nuove associazioni agrarie
2. conservare quelle esistenti, ma sopprimendole se “inutili o dannose”
3. preferire i Comuni nella gestione dei beni collettivi.
C’è da chiedersi se, come ha fatto la Regione Veneto con riguardo alle antiche regole che non si erano ricostituite nel 1948, le Regioni possano prevedere la “rinascita” delle antiche associazioni agrarie e dunque anche sollecitare la trasformazione delle ASBUC (amministrazioni separate dei beni civici) in enti di diritto privato con autonomia statutaria per la gestione delle terre civiche.
  
7. Ma questo quarto punto (la legge del 1994 ha capovolto il sistema della legge del 1927 quanto all’approccio “verso” le Associazioni agrarie?) pretende che sia risolta, soprattutto nelle regioni italiane dove non sussiste il fenomeno delle collettività “chiuse”, la questione fondamentale –e pregiudiziale- di chi sia il titolare delle terre civiche e dei diritti di uso civico su terre privata: la collettività come “corpo morale? O i membri della collettività, uti singuli?
Sicché, quando le terre civiche sono catastalmente imputate al Comune, il Comune è il dominus? O è soltanto l’ente esponenziale della collettività che è la vera domina? Ovvero l’imputazione all’Ente-Comune è quoad dominium o quoad inidictionem? Chiariamo subito l’importanza della risposta: se titolare è la collettività come corpo morale, cioè come soggetto-individuo, costituita nell’Associazione o nel Comune la proprietà è dell’individuo-Ente (è una proprietà individuale) mentre i cives sono solo utenti, cioè ne godono uti universi, così come godono delle piazze e delle vie.
Con l’ulteriore conseguenza che non vi sarebbe grossa differenza pratica tra l’ipotesi delle terre civiche e quella degli usi civici in senso stretto, perché in entrambe i cives godrebbero delle utilità come utenti, sia delle terre della Associazione o del Comune sia delle terre private l’unica differenza p che lo scorporo  si ha solo con riguardo alle seconde!

8. La risposta non è agevole. Ma, prima di affrontarla, ricostruiamo storicamente la situazione del c.d. demanio universale o communale o civico a cui corrisponde il fenomeno delle “terre civiche” cioè delle terre da cui la collettività ritrae tutte le utilità,
E’ a questo punto che occorre riprendere le mosse dal Medioevo e dalle specifiche realtà storico-giuridiche delle varie regioni italiane e, per il fatto che siamo in Puglia, dalla realtà storico-giuridica del Regno di Napoli. Perché ogni generalizzazione  è arbitrari.
Vorrei ricordarvi che
a) i Normanni vi regnarono dal 1137 al 1194 (con Ruggero) gli Svevi dal 1194 al 1265 (ed ebbero Federico II nel 1220) gli Angioini  dal 1265 al 1442 gli Aragonesi dal 1442 al 1734 i Borboni dal 1734 al 1860 con l’intervallo dei Napoleonidi tra il 1806 ed il 1815 (e con l’intervallo della Repubblica dal 22.1.1799 al giugno 1799);
b) che il feudo vi fu certamente, e con larghezza, importato dai Normanni;
c) ma che la struttura del feudalesimo sopravvisse ai Normanni ed agli Svevi e trovò larga acqua di coltura con gli Angioini ed Aragonesi pronti a concedere e riconoscere benefici ed immunità in cambio di servizi e di danaro.
Gli Autori meridionali ricordano che nel Regno di Napoli si distinguevano
1. demani regi
2. demani feudali
3. demani universali,
rispettivamente del re del feudatario delle Universitates.
Ora, quando nei secoli XVII e XVIII si sviluppò l’esigenza di una lotta contro le usurpazione e gli abusi dei feudatari, nacque un movimento antifeudista per il quale ogni demanio –ma la lotta era rivolta contro quello feduale- e soprattutto quello feudale non era che un pubblico patrimonio (GUARANI) (cioè un patrimonio della Nazionae: Cenni) soggetto fin dall’origine agli usi della popolazione; in sostanza, iura civitatis, “ne cives inermem vitam ducant”, si ritennero preesitenti a qualsiasi forma di dominio: sicché essi “nec per legem nec per regem tolli possunt”.
Altro questa non è che la concezione giusnaturalistica degli usi civici, con il richiamo al diritto naturale delle popolazioni rurali, risultante dalle insopprimibili loro necessità di sostentamento.
In altre parole, si affermò la tesi dell’esistenza generalizzata degli usi civici a favore delle popolazioni abitanti nei feudi, cioè delle universitates infeudate, in base alla presunzione assoluta che i diritti civici pretesi sopra i demani feudali [e poi ex-feudali] dovessero ritenersi come riserve, per diritto naturale, della originaria demanialità universale delle terre gravate.
Questa dottrina aveva condotto alla affermazione del principio della intangibilità assoluta dei diritti demaniali delle università e dei diritti civici delle popolazioni.
Questi diritti “in aeternum durare videntur” e la loro rivendicabilità è imprescrittibile iure naturae.
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Sia stata questa dottrina vincente a) per la ragione politica della volontà del re di tagliare le unghie ai baroni [è dalla Prammatica Iª de salario del 1483 Ferdinando d’Aragona con cui si conferma il diritto degli uomini del Regno di usare boschi e pascoli e campi ed acqua come da consuetudine; e dalla Prammatica de baronibus  XIª DEL 1536 Carlo V° fu divieto ai baroni di costituire difese e chiusure] o b) perché effettivamente fondata nella realtà storico-giuridica dell’Italia meridionale (come ritiene Trifone, contestato da Cassandro e da Astuti), certo è che essa è passata, attraverso le massime della Commissione feudale del 1808, nella giurisprudenza nostra, per la quale: i concetti di uso civico e di demanialità sono equivalenti (Cass. N. 1476/1931) ed ubi feuda ibi demania; ubi demania, ibi usus.
Comunque, una cosa è certa: il binomio demani universali e usi civici è una realtà storico-giuridica del Regno di Napoli.
Lasciamo da parte, la questione se i diritti di uso civico esercitati sui demani feudali siano espressione di condominio o di servitù [la questione fu sollevata per escludere la riforma fondiaria del 1950 dato che se fosse stato “condomio” le terre ex feudali non sarebbero state espropriabili!] ed interess…. dei demani universali.
Di chi erano? Della popolazione? O della Universitas quale corpo morale?
Ricordiamo: per gli antifeudisti:
il demanio universale, altrimenti detto comunale, non era altro che una parte dell’originairo territorio nazionale adibito ai bisogni dei cittadini riuniti in comune, e non era una concessione sovrana, ma la riconferma dei iura civitatis che appartenevano ai cittadini prima ancora che il principe acquistasse diritti sul regno e Federico II, se nel riferirsi ai demani regi li chiama nostri, invece dice che i demani universali sono quelli che appartengono “ad ipsas universitates in Regno [pertinent] et quorum usus communis  est inter cives”.
  
9. Vi farà grazia delle considerazioni degli storici [di Frontino] per i quali le città italiane possedevano, come persone giuridiche, silva et pascua che non potevano alienare per alcun motivo onde non essere sottratte al populus; ma che esistevano altri pascoli ed altre selve che appartenevano agli abitanti tutti e non alla persona astratta della colonia, e che potevano essere alienati da parte dell’ordo cittadino al quale spettava l’amministrazione della città (Cassandro, p. 14).     
Ritengo, invece, opportuno ricordarvi il processo evolutivo del “gruppo” o collettività originaria da associazione di fatto all’Ente-Comune nelle sue modalità più sicuramente generalizzabili.
Allorché il gruppo si insediò e prese possesso di un territorio e lo fece suo con il lavoro ed il godimento, il gruppo era una semplice collettività di uomini una universitas hominum
1. che godevano in comune la terra
2. che deliberavano tutti assieme organizzando le modalità di utilizzazione dei boschi, dei prati e dei campi.
La divisione delle comunaglie, il mantenimento dei confini, l’opportuna chiusura di certe aree al pascolo o al taglio del bosco imponevano regole sostanzialmente di polizia rurale ma aventi effetto sul complesso dei diritti e degli obblighi dei comunisti, dei consortes, dei vicini tra di loro [e l’Editto di Rotari assimila alle consuetudini le fabulae inter vicinos].
Il fatto è che tali universitates dovevano occuparsi anche di costruire o riparare un ponte od una strada, di costruire o riparare una fontana od un abbeveratoio cioè di risolvere problemi che noi diremmo di natura pubblicistica.
Man mano che i compiti di autogoverno dei problemi e dei servizi di Comune interesse aumentarono e man mano che il territorio richiamò forestieri che alle spese delle opere pubbliche vennero obbligati a partecipare e che vollero, per converso, godere delle terre comuni, si iniziò lo slittamento della universitas degli antichi possessores nelle braccia del Comune di tutti gli habitatores fino al punto in cui la collettività (che non volle o non poté mantenere la sua distinzione dal Comune) si confuse con il Comune operandosi la commistione dei beni originari della collettività con quelli propri del Comune.
Cioè, quando si affermò il diritto eminente della città questo affermarsi impedì anche che persistesse una organizzazione qualsivoglia ed un vincolo tra i vicini per la regolamentazione dell’uso sulle terre indivise.
Tra i documenti è stato rinvenuto un atto di acquisto di beni del vescovo di Pesto da parte degli atranesi (secolo X) i quali si presentano a compiere il negozio giuridico non come unità, ma tutti assieme (Cassandro, 79).
Qui gli homines atranenses (di Atrani, sulla costiera amalfitana) compiono atti di comune interesse senza fondersi e scomparire inun gruppo autonomo, contrattando per se stessi e per coloro che erano ad navigandum (è un gruppo si coesione).
Ed a Ravello, il 1° marzo del 1096, omnes  populos rabellenses offrono al Monastero un monte di loro proprietà (Cassandro, p. 122).
Ma nel 1105 compare per la prima volta il termine “universitas” quando gli abitanti di Grumo e di Bitetto lottano per l’uso di taluni tenimenta terrarum che sono nel dominio del signore feudale (Cassandro, p. 207).
Alla fusione del gruppo non contribuirono solo motivi economici ma anche altri: il gruppo si propose la riduzione di vincoli patrimoniali; il riconoscimento di consuetudine antiche; la rivendicazione d’una partecipazione alla vita pubblica attraverso la nomina di indices scelti tra la popolazione (non estranei) (legislazione baiulare); la modificazione degli antichi contratti di livello, tutti motivi sufficienti al formarsi del gruppo rurale ed alla sua finale trasformazione in universitas (Cassandro, p. 152).
Secondo Cassandro, tuttavia, nell’Italia normanna esistevano, di regola, solo diritti d’uso non proprietà collettive né patrimoni cittadini o vicinali sicché i demani universali cioè le proprietà delle universitates si costituiscono per intervento, più o meno diretto, degli stessi poteri statali.
Ciò si verifica quando le città, anche per la debolezza del potere centrale, acquisì le terre comuni su cui lo Stato si era riservato, in misura più o meno ampia, i diritti di herbatieum, glandatieum ecc. [che così vengono meno: “scompaiono” (Cassandro, p. 207)], senza però che si verifichi un vero e proprio passaggio dal demanio regio al demanio cittadino, perché il re, con la rinunzia a percepire redditi e censi, non abdicava totalmente al suo domino ed alla sua sovranità.

10. Bàiulo Di quel che fé col b.
In particolare la formazione dei demani cittadini ebbe grande sviluppo quando alle città fu data la possibilità di nominare i bàiuli, cioè i giudici alle cui tutela ed al cui controllo era praticamente sottoposta tutta l’attività agricola locale (Cassandro, p. 211) .
Infatti, la tutela dei demani regi e la riscossione dei redditi spettanti alla curia competeva ai magistri camerarii, alle cui dipendenze, tanto nelle città che nelle università rurali, stavano i bàiuli, ai quali spettava anche la regolamentazione degli usi civici.
Più che ad una competa autonomia, le città e le comunità rurali aspiravano alla giurisdizione baiulare, cui si collegavano interessi essenziali per la vita dell’università: pesi e misure, locazione d’opere, usi civici. [Federico II° comincia ad autorizzare i “prudentions lei” a partecipare alla giurisdizione baiulare].
Quando si cominciano a vedere al miglior offerente le “baiulationes”, tra gli acquirenti sono in prima linea le universitates. [il nucleo delle entrate statali non era più costituito da redditi di natura patrimoniale, ma era formato dal datum o dall’adiutorium].
Il passaggio della giurisdizione baiulare dallo Stato alle università assume un ritmo accelerato con la dominazione angioina (1265-1442) costretta a patteggiamenti sia con il feudatario sia con le autonomie locali (Cassandro, p. 214).
Quello che occorre mettere in evidenza è che l’acquisto della giurisdizione baiulare pose nelle mani delle città la materia degli usi civici.
Non solamente il potere di regolare i diritti degli abitanti sulle terre comuni, non solo il potere di stabilire fide; ma anche la proprietà di tali terre. “Il diritto eminente dello Stato impallidisce e scompare” (Cassandro, p. 223).
Si venne così formando un demanio cittadino e tutto ciò come fenome temporalmente tardo!! (cinque-seicento) (Cassandro, p. 234) [nel trecento i giuristi asserivano che i boschi e pascoli erano oggetto del dominio regio o baronale, ed i privati e le università che se ne fossero trovati in possesso avrebbero dovuto mostrare un titolo valido o ricorrere alla longissima prescriptio].
Ma Cassandro dice (p. 223) che è difficile rintracciare negli statuti delle città norme che consentano di spiegare la natura di questo demanio cittadino, alias universale.
Non vi sono, negli statuti delle città, norme che spieghino la natura del demanio universale.
  
11.  Dunque: ricorso alla dottrina! Dunque ricorso alle contrapposte tesi di Trifone e di
Astuti i quali –entrambi- riferiscono della tesi giusnaturalistica delgi usi civici e diun solo demanio originariamente  universale, ma che spiegano in modo diverso: il Trifone, come realtà storica l’Astuti, come feticcio.
Quello che, però, è certo e che il demanio universale è gestito dalla Universitas, intesa ormai come “corpo morale” o come persona giuridica, a cui compete anche un dirito d’uso sulle terre demaniali (non allodiali) del feudo, nei limiti fissati dalla consuetudini e che assumeva la figura delle servitù (Cassandro, p. 233). Cio, peraltro, non spiega se l’Universitas agisse come domina (quoad donnium) o come “rappresentante” (organo) della collettività (quoad iurisdictionem).
Certo, Capobianco, nel suo Tractatus de iure et auctoritate baronum erga vassallos burgenses del 1614 (Cassandro, p. 221) dice che l’Universitas non solo ha “bonia publica” (le piazze, le vie) e privata, ma ha anche beni “demanalia” che consistono in “pasena, glandes, spicae et aliae commoditates territorii” che l’Università possiede soltanto di nome, prché in realtà spettano “ad singulos ut singulos et non ad universosma, quando il Comitato di legsialzione deve dare il suo parere sul progetto di legge della Repubblica napoletana sull’abolizione delle feudalità del 14.3.1799 (Repubblica napoletana) definisce i demani comunali quali quelli “che appartengono in pieno dominio alle Unviersità, ed i baroni non esercitano sui medesimi che quello che loro compete come semplici cittadini” (Trifone, p. 38).

12. Ed allora? Che valore hanno le tesi del passato, ancorché la dottrina meridionale abbai rappresentato la base della legge del 1927?
Che valore hanno le leggi di Giuseppe Napoleone e di Gioacchino Murat nella “divisione” dei demani feudali tra cives e feudatario nel senso che a ciascuno dei cives, anche se bambino, fatta la divisione, sulla quota parte assegnata alle universitas e sulla terra universale spettava una porzione di almeno 2 tomoli? (art. 22 decreto 3.12.1808) e ciò in proprietà libera? (Trifone, p. 293) “i cittadini concessionarii, qualunque sia stata il modo di divisione, saranno riguardati come padroni delle quote loro spettate e godranno di tutta la pienezza del dominio e della proprietà, con forme liberamente uso” 8art. 32 decreto 3 dicembre 1808) (Trifone, p. 298 ss.)
La risposta non è agevole.
Ma oggi non possiamo che tener conto dell’attuale diritto positivo.Nella legge del 1927 e nelle leggi collegate (r.d. n. 332 del 1928 e l.n. 278 del 1957) non vi è chiarezza.
Le formule sono ambigue:
l’art. 8 legge 1927 dispone che le promiscuità si sciolgano con l’attribuzione a ciascun Comune “di una parte delle terre in piena proprietà”
l’art. 26 legeg 1927 parla di terreni di originaria appartenenza della Frazione”
ma l’art. 12, 3° comma legge 1927 afferma che “i diritti delle popolazioni su dette terreni saranno conservati
l’art. 7, 2° comma, legge 1927 dispone la c.d. liquidazione investita “a favore della popolazione del Comune, della Frazione o dell’Associazione”
l’art. 58 r.d. n. 332/1928 si riferisce ai beni delle Associazioni come beni “di originario godimento comune
l’art. 1, legge n. 278/1995 fa riferimento a “beni di proprietà collettiva della generalità degli abitanti del territorio frazionale”.
Ed oggi si può aggiungersi l’art. 3 legge n. 97/1994 che parla di proprietà collettiva inusucapibile e non già di una proprietà dell’Associazione o dell’Organizzazione montana su cui vi siano diritti di godimento imprescrittibili.
Ed infine: il diritto vivente oggi civis ha diritto di azione a tutela del suo diritto.
Solo così si riesce
1. a risolvere il problema della non-coincidenza della comunità-usuaria e del territorio comunale (è il caso di una collettività che gode di certi beni nel territorio di altro Comune: qui non c'è un rapporto tra bene e territorio del Comune cui appartiene la collettività)
2. a comprendere l’art. 26 legge n. 1766 del 1927 e dell’art. 64 Regol del 1928 per i quali il Prefetto 8la GPA) deve nominare un commissario prefettizio per l’Amm.ne separata dei bei civici insistenti nella Frazione amm.ne distinta e diversa da quella (eventuale, però) di beni patrimoniali della Frazione per i quali l’Amm.ne era un delegato del Sindaco dunque: i beni civici sono della collettività ed il Comune, cui sono catastalmente imputati, è solo l’ente esponenziale.
La Regione può, allora, con la sua legge “ricostituire” le vecchie collettività, trasformare le ASBUC in enti di diritto privato gestori dei beni collettivi degli abitanti della Frazione “credendo” alla partecipazione dei cittadini alla gestione di beni ecologicamente rilevanti; ma soprattutto i Comuni NON POSSONO dimenticare che essi altro non sono che organi di amministrazione, perché i beni civici sono della collettività!!


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